I Racconti di Parvana ( The Breadwinner) è un film animato di Nora Twomey che si rifà al romanzo Sotto il burqa (2000) di Deborah Ellis. Il lungometraggio mostra la vita di una bambina undicenne, Parvana, che cresce a Kabul sotto il regime talebano.

I Racconti di Parvana
Parvana, contrariamente alle sue coetanee occidentali, già all’età di quattro anni non gioca più con le bambole perché deve accudire i suoi fratelli. I problemi della protagonista del film animato sono gli stessi del resto delle bambine afghane e di tutte quelle che purtroppo sono nate in luoghi dove l’oppressione culturale è molto forte.
A sette anni sono delle bambine nell’aspetto ma con movenze adulte: casalinghe esperte, pronte a diventare madri e vicine al matrimonio perché ad undici anni è questo lo scenario che viene presentato loro, nella maggior parte dei casi. Alla loro età diventano adulte e i loro sogni, le loro propensioni vengono ammutolite dal dover svolgere mansioni casalinghe e di ordinaria amministrazione.
I Racconti di Parvana mostra uno scenario sulla mancanza di diritti per l’infanzia e sottolinea la diversità di genere perché la cultura, rappresentata nella maggior parte dei casi dalla possibilità di leggere e scrivere, è rappresentata soprattutto dalla possibilità di vivere liberamente, seguendo le inclinazioni e i sogni legati a ciascuna età.

I Racconti di Parvana
I Racconti di Parvana: la trama
Parvana è una ragazzina di undici anni che, all’improvviso, si trova a vivere senza il padre perché viene arrestato dai talebani. Venuta a mancare la figura patriarcale, quella stessa che le stava insegnando la libertà attraverso la lettura e la scrittura, la bambina deve mantenere la sua famiglia. Da subito la bambina si rende conto che anche comprare del riso al mercato diventa complicato perché è una donna.
A Kabul solo gli uomini possono parlare, lavorare, comprare beni di prima necessità e rapportarsi alla comunità. Dunque, sfruttando la sua giovane età, Parvana taglia i suoi lunghi capelli neri e indossa degli abiti maschili, per poter trovare un lavoro che le possa permettere di mantenere la sua famiglia.
La ragazzina, insieme ad una sua amica anche lei travestita da uomo, inizia a lavorare al mercato. Per arrotondare Parvana, alcune volte, impartisce lezioni di lettura e scrittura ad un talebano, che si scopre essere tra i più gentili tra quelli che conosce.
La differenza di genere è una problematica molto delicata che indossa vari abiti e risiede non solo nei luoghi che sono meno sviluppati culturalmente. Purl (2018), un corto animato della Pixar, mostra la differenza di genere negli ambienti di lavoro occidentali.
I Racconti di Parvana è un film prodotto da Angelina Jolie, che uscirà nelle sale italiane il prossimo 25 novembre.
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Le luci nelle case degli altri di Chiara Gamberale
Le luci nelle case degli altri (2010) di Chiara Gamberale è un romanzo che ci parla del quotidiano e di inclusività, un argomento che negli ultimi tempi è importante affrontare. Giugno, come sappiamo, è il mese che festeggia il Gay Pride e la comunità LGBTQ+ in tutto il mondo.
La scrittrice attraverso lo sguardo smarrito di Mandorla, una delle protagoniste del romanzo, ci insegna a guardare e scoprire il mondo da un altro punto di vista che è molto più umano, semplice da adottare e profondo.
Il lettore in poco tempo sente di abitare all’interno del condominio in cui vive la ragazza e in qualche modo cresce con lei, si smarrisce insieme a lei che cerca suo padre e il senso della sua esistenza.
Un romanzo di Chiara Gamberale che parla di inclusività
Le luci nelle case degli altri: la trama
Maria, la madre di Mandorla, muore all’improvviso in un incidente stradale all’età di trent’anni, lasciando la figlia che, al tempo, ne ha solo sei. La bambina, attraverso una lettera, scritta dalla madre per lei, il giorno della sua nascita, scopre qualcosa d’importante: all’interno di quel condominio di cinque piani c’è suo padre. Nessuno dei condomini vuole sottoporsi al test del DNA così decidono di occuparsi tutti insieme di lei.
Il condominio è abitato da diverse personalità che alla fine arricchiscono Mandorla, anche in quei momenti bui, in cui la ragazza cerca disperatamente di scoprire l’identità di suo padre.
Maria, in vita, svolgeva l’attività di amministratrice condominiale anche in quello stesso palazzo in cui c’è il padre di Mandorla. Tutti i suoi amici e conoscenti, come si evince all’interno delle pagine de Le luci nelle case degli altri, la vedono come una donna libera che ha sempre vissuto senza costrizioni sociali. La donna il giorno in cui mette al mondo sua figlia le scrive una lettera che si rivela una sorta di testamento morale perché c’è scritto molto di lei: come vede il mondo, come vorrebbe educarla e cosa lei ritiene giusto per la figlia.
La libertà è ciò che muove Maria nella vita e in tutti i ruoli che ricopre, il significato che lei da a questa parola trasuda da ogni riga che compone il testo. Nonostante gli errori ortografici e grammaticali si può comprendere che l’apertura mentale, gli ideali sani non sono solo il frutto di studio e di cultura ma appartengono alla sensibilità con cui si guarda il mondo, quella capacità umana che non appartiene solo alla qualità e alla quantità di libri che si sono letti durante il corso della propria vita.
La lettera riassume molto il significato del romanzo, per questo motivo la riportiamo integralmente:
25 ottobre 1993
Amore mio.
Ti ho vista solo di sfuggita, poi un’infermiera ti ha portato via. Avevo così tanta tantissima voglia di conoscerti che evidentemente tu l’hai avvertita e sei arrivata con due mesi di anticipo.
Minuscola come una mandorla, dice il dottore.
È per questo che adesso bisognerà tenerti per un po’ in una scatola di vetro: per trasformarti da una mandorla a una bambina vera! Il dottore mi assicura che tutto andrà bene, però in questo letto d’ospedale che ci stò a fare io, se tu non ci sei?
Allora ti scrivo.
Perché non ce la faccio a pensare ad altro che non sei tu.
E perché sono così tante le cose che da qui a sempre vorrei darti, è così grande la paura di non farcela che almeno, se mai un giorno leggerai questa lettera, saprai che ce l’avevo messa tutta ma tutta tutta quanta.
Vorrei averti qui con me adesso, ma questo già te l’ho detto.
Vorrei vorrei vorrei.
Vorrei trovare trovare per te un nome perfetto, di quelli che le persone quando ti chiedono: “Come ti chiami?”, tu gli rispondi:” Mi chiamo così” e loro ti dicono: “Ma ti sta proprio benissimo questo nome! Sembra creato a posta per te!”.
Vorrei vorrei vorrei.
Vorrei aver studiato un po’ più l’italiano e vorrei aver letto tanti bei libri per scriverti una lettera piena delle parole più preziose del mondo: ma a scuola non ci sono andata mai troppo volentieri.
Poi quando sono morti i nonni ho dovuto sbattermi per cercare un lavoro, e addio cultura! per non parlare del lavoro che alla fine ho trovato, allo Studio Amministrazioni Poggio Ameno: sono sempre alle prese con i conti e le tasse che le persone pagano, altro che parole belle! Ma proprio una ragazza che conosco grazie a questo lavoro, che si chiama
Lidia, un giorno mi ha detto una cosa da rifletterci sù: ha detto “Più sai
usare le parole più ti allontani anziché avvicinarti a quello che vuoi
realmente esprimere”. Quindi sai che che ti dico? Sono felice di non saper scrivere bene per dirti quello che vorrei!
Vorrei vorrei vorrei.
Farti mangiare tutto il cioccolato che vuoi senza che ingrassi (è
buonissimo, il mio preferito è quello al latte).
Che se i compagni di classe ti prendono in giro per qualche motivo, tu pensi che sono sbagliati loro, mica tu.
Fare molti viaggi (io non ho nemmeno il passaporto, ma adesso
me lo faccio perché il mondo là fuori è tantissimo e tu dovrai vederlo tutto, dovrai conoscerlo).
Vorrei che non ti ammalerai mai.
Che non ti spuntano i denti del giudizio (toglierli fa davvero male).
Che ti piacciono i cappelli come piacciono a me, così possiamo collezzionarli insieme.
Vorrei che hai tanti amori di quelli scemi, che fanno girare la testa e
ronzare i calabroni in pancia: tutti non fanno che ricordarmi che l’amore
nella vita non è tutto, e certamente hanno ragione. Ma che ti devo dire? I
giorni più felici che ho passato (senza contare oggi, naturalmente) sono stati quelli che ho passato innamorata. Magari di qualcuno che non ne
valeva affatto la pena, ma che fà? Non c’è cosa al mondo più bella di
svegliarsi in un letto dove non avevi mai dormito prima di quella notte, e
pensare: ecco, in questo momento non mi manca niente.
E quindi vorrei che di quel genere di mattine tu ne vivi tante.
Ma naturalmente che poi, a un certo punto, trovi la persona giusta
(giusta per te: intendo). Io non ci sono riuscita ma ancora ci spero. Il
problema è che gli uomini rimangono incantati quando allo zoo vedono
per la prima volta una giraffa: ma poi a casa preferiscono tenere un cagnolino.
È per questo che vorrei che cresci rara come una giraffa in città, ma con l’istinto domestico del cagnolino: dappertutto c’è del bene, dappertutto c’è del male.
Vorrei pensarti sempre più forte di quello che potrà capitarci.
Insegnarti a cucinare.
A riconoscere i nomi delle piante (anche quelle strane).
Vorrei che trovi un amico come per me è Michelangelo, qualcuno che
mentre tutto il resto gira e cambia, rimane fermo.
Che impari almeno una lingua straniera (io non sò nessuna e mi
sento una deficiente).
Vorrei che leggerai questa lettera quando ne avrai bisogno, così potrà
farti bene come oggi stà facendo bene a me a scriverla.
Vorrei che fino a quel momento tu la tieni con te, in una busta, come
una specie di amuleto magico magico che ti protegge da tutto quello che di brutto
stà là fuori.
Vorrei vorrei vorrei.
Che litighiamo quel poco che basta per capire che siamo davvero
importanti l’una per l’altra.
Che ti crescono i capelli lisci (quelli ricci pare che sono una
scocciatura).
Vorrei che tuo papà fosse un astronauta che cammina sulla luna ma
pensa sempre a noi, e non un uomo come tanti, che abita in via Grotta
Perfetta 315 e una sera di marzo, forse per noia forse per curiosità, nell’ex
lavatoio del sesto piano ha fatto l’amore con me.
Vorrei vorrei vorrei.
Che le infermiere ti portano al più presto qui.
Perché so che tutti i giorni che qualcuno nasce, così come purtroppo
qualcuno muore. Ma che ci vuoi fare? Quando tocca a te credi che è la
prima volta che capita, in assoluto. E oggi mi sembra che nessuna donna,
oltre a me, è mai diventata
Chiara GamberaleMamma
Le luci nelle case degli altri ci mostra un modo di guardare il mondo che è scevro da pregiudizi ma che è anche difficile da attuare. Un genitore dovrebbe rispettare gli ideali e le propensioni di un figlio, come il suo orientamento sessuale ad esempio, rispettando a 360 gradi ciò che pensa.
Un genitore dovrebbe avere la forza di comprendere e rispettare un figlio a prescindere da ciò che individualmente si ritiene giusto perché ogni essere umano è un mondo a parte, un insieme di valori, sensibilità e modo di giudicare il mondo che è soggettivo e personale.
La cosa più importante che emerge dalle pagine del romanzo di Chiara Gamberale è che qualsiasi scelta personale non contiene all’interno il sinonimo di giustizia o normalità perché senza azioni che ledono fisicamente il prossimo tutto è giusto, contemplabile e praticabile.
Questo è il senso profondo dell’inclusione cui dovremmo arrivare socialmente e umanamente.
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Morrison Hotel: storia di uno scatto cinquantennale
Gennaio 1970.
Per di qua, ragazzi. Ci siamo quasi…
La band seguiva quel tipo alto, biondo ed occhialuto, il tastierista, tra strade semisconosciute di Venice Beach, quello stesso luogo dove cinque anni prima, sulla spiaggia, era iniziato tutto.
Ray Manzarek lì vi aveva incontrato Jim Morrison, il suo compagno di studi all’UCLA e insieme avevano dato vita a qualcosa di strabiliante; una nuova parentesi musicale che avrebbe abbracciato la filosofia di Nietszche con le poesie di Rimbaud, un libro di Aldous Huxley, Le porte della percezione, con il richiamo obbligato a William Blake: i Doors, signore e signori.
Ora, quasi cinque anni dopo, ormai famosi, eccoli riuniti per un servizio fotografico organizzato all’ultimo minuto.
Perché tanta tempestività?
Da qualche giorno Jim Morrison aveva tagliato la foltissima barba che portava da più di un anno. Questo in seguito a degli scatti promozionali per una rivista patinata, che lo ritraevano di nuovo ben rasato mentre indossava abiti sgargianti e di dubbio gusto, insieme ad altri modelli di bellezza androgina tutti intorno e infine con lei, Pamela Courson, sua compagna e musa, oltre che proprietaria della boutique Themis. Un investimento davvero esagerato, affrontato grazie alle royalties degli album precedenti dei Doors.
John Densmore, Robby Krieger, Ray Manzarek e Jim Morrison
Per la sua ragazza Jim Morrison non aveva badato a spese nemmeno per quanto riguardava una casa, con tanto di Porsche parcheggiata nel vialetto, mentre lui viveva senza fissa dimora, saltellando tra un hotel e l’altro, tutti d’infimo ordine.
Aveva fatto crescere la barba innanzitutto per uccidere l’emblema di sex symbol che gli avevano cucito addosso, oltre che per somigliare sempre più al poeta a tempo pieno che desiderava diventare.
In più nell’ultimo anno, in seguito ad un esaurimento nervoso e al forte alcolismo, aveva messo su qualche chilo, situazione che sommata al rifiuto di radersi, infastidiva a dir poco gli altri ragazzi della band, che proprio per questo motivo da tempo si erano rifiutati tutti insieme per una session fotografica. Solo che Jim Morrison, dal suo canto, per Pamela Courson non solo avrebbe tagliato la barba, o sarebbe volato dall’altra parte dell’oceano, ma si sarebbe addirittura esposto di nuovo ai flash, come la rock star intrisa di sesso che era stata tre anni prima.
Accortisi della novità, dunque, gli altri membri dei Doors avevano presto pensato ad un servizio fotografico promozionale per l’album che sarebbe uscito un mese dopo, e bisognava far presto, dunque, prima che la barba ricomparisse di nuovo sul volto del loro cantante dannato.
“Ci siamo” dichiarò Ray Manzarek mentre sostava di fronte a ciò che sembrava l’ingresso di un hotel.
Jim Morrison, Robby Krieger e John Densmore, insieme al fotografo Henry Diltz, sostarono a lungo alle spalle dell’amico dal caschetto biondo, il quale indicava con un sorrisetto ironico e saccente il luogo dove si sarebbe descritta gran parte della storia di quell’anno, dove tutta la filosofia del poco tempo che sarebbe rimasto per le loro creazioni si sarebbe fossilizzata in uno scatto simbolico e decisivo. Una vetrina abbastanza grande sulla sinistra su cui campeggiava la scritta Morrison Hotel, e a destra un ingresso alquanto trionfale, nonostante lo squallore generico che quel luogo terribile ispirava; un albergo che costava due dollari e mezzo e notte, fatiscente e lugubre.
Morrison Hotel
La band però sembrava entusiasta dell’idea e Henry Diltz li immortalò dapprima sotto il piccolo porticato che antecedeva l’ingresso; poi i Doors varcarono la soglia che si aprì con un tintinnio familiare ed entrarono nella hall, subito sulla sinistra, posizionandosi al di sotto della scritta, ognuno prendendo il suo posto, un po’ a caso, mentre il fotografo restava in strada, cercando di ritrarli e valutando le luci della sera che presto sarebbe sopraggiunta, e con essa i riflessi nel vetro dei fanali delle automobili che circolavano. Ma niente da fare. Il titolare dell’albergo, un tipo losco e burbero, senza troppe scuse mandò i ragazzi a farsi un giro: niente foto nel suo hotel, neanche a pensarci, gente.
Tra una scusa e l’altra i nostri intanto perdevano tempo, ordinando magari un drink, sostando nei pressi del luogo agognato, davanti alla vetrina della hall, ma mai allontanandosi.
Il momento propizio avvenne quando il direttore si allontanò un attimo per un impegno improvviso. Ci volle uno sguardo d’intesa tra tutti quegli amici un po’ brilli, e successe tutto in un attimo: Henry Diltz balzò di nuovo in strada, mentre i Doors, con un Jim Morrison volutamente posizionato al centro con camicia bianca che rifletteva il pallore del viso, e uno sguardo vacuo, ripresero lesti i posti che erano stati loro assegnati qualche minuto prima di essere interrotti. Restava poco tempo a disposizione e bisognava far presto: la luce, già scarsa quel pallido giorno d’inverno di cinquant’anni fa, sarebbe del tutto scemata in una manciata di minuti. Inclinato appena sulla sua destra, Robby Krieger è in piedi alle spalle di Jim Morrison, quest’ultimo seduto su un tavolino, mentre Ray Manzarek e John Densmore accomodati in poltrona, ai lati del loro carismatico e quasi sempre alticcio cantante, il primo un po’ più composto e girato di lato mentre guarda l’obiettivo, il secondo in ginocchio sul sedile e gli avambracci posati sulla spalliera, il mento quasi a toccare le mani congiunte. Quando il direttore tornò quei capelloni erano già belli lontani, con un tesoro che avrebbe fatto storia nelle istantanee rock, al sicuro nella macchina fotografica.
L’album che uscì un mese dopo, il 9 febbraio 1970, avrebbero dovuto intitolarlo Hard Rock Cafè, ma fu quello scatto organizzato in pochi minuti, che cambiò i connotati al lavoro. Morrison Hotel vendette in poche settimane mezzo milione di dischi, e quel nome all’album che ricordava senza dubbio il cantante, fu come un omaggio a Jim Morrison, che abbandonata per un attimo la sua crisi esistenziale, si era rimesso di nuovo sul serio a lavoro per la stesura delle nuove canzoni e per affrontare le nuove date.
Esistono delle riprese di quel pallido pomeriggio a Venice Beach, girate dallo stesso Henry Diltz, poco prima di arrivare al Morrison Hotel.
Jim Morrison
Jim Morrison (che beve da un fiaschetto di non so cosa) e soci passeggiano sulla spiaggia, poi il cantante sale su un’altalena per un giro mozzafiato, infine risale la spiaggia e si ferma davanti ad un muretto su cui campeggia una scritta: ERBA.
Carmine Maffei
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Morgan spiega al pubblico di Avellino il perché della sua polemica social contro Irpinia Mood: il video
Il live di Morgan avrebbe dovuto concludere la serata di Irpinia Mood in modo piacevole, come ci si aspetta da un momento aggregativo musicale, ma le cose sono andate diversamente, almeno nella prima parte.
Arrivata quasi l’ora dell’esibizione di Morgan, sulla sua pagina ufficiale di Facebook, l’artista scrive:
Marco Castoldi polemizza sull’organizzazione del suo live ad Avellino
Dopo questo post dell’artista, da parte soprattutto degli avellinesi e di chi era andato ad ascoltarlo, si sono scatenate le risposte più disparate e prevalentemente non a favore della polemica fatta. Morgan, salito sul palco, ci ha tenuto a precisare le sue ragioni, sottolineando il periodo negativo che sta attraversando ed ha poi, finalmente, iniziato il suo live.
Marco Castoldi
Morgan e le polemiche sollevate: le nostre considerazioni
Ha avuto realmente senso sollevare questa polemica, avallando alcune motivazioni paradossali? Secondo noi no e vi spieghiamo su cosa non siamo d’accordo (le nostre motivazioni non scaturiscono dall’orgoglio irpino ma da un discorso più ampio e più umano, se vogliamo).
Per quanto riguarda la scenografia offensiva ovvero quella di suonare lungo Corso Vittorio Emanuele (che comunque è la strada principale della città e dove, soprattutto, si svolgeva Irpinia Mood, un festival di street food) poteva essere ritenuta offensiva nei suoi confronti qualora gli organizzatori l’avessero cambiata last second e senza preavviso. Probabilmente Morgan ha pensato che Irpinia Mood fosse una rassegna di musica classica con location teatrale o forse i suoi collaboratori non gli hanno spiegato bene in cosa consistesse l’evento.
Altro particolare irrilevante: la location di un’esibizione ha sicuramente la sua valenza ma la bravura di un artista consiste nella capacità di emozionare attraverso ciò che fa, cosa che comunque gli è riuscita egregiamente anche ieri sera.
Per quanto riguarda il compenso ricordiamo che, un artista prima di chiudere o stabilire una data valuta la remunerazione e decide se sia consona o meno alle sue aspettative, può essere accettato o rifiutato. Se il compenso non era di suo gradimento già nei mesi precedenti all’esibizione (perché queste “trattative” vengono affrontate dagli organizzatori e dall’artista o da chi se ne occupa per lui con largo anticipo, rispetto alla data di esibizione) perché ha accettato di esibirsi ugualmente quando poteva risparmiarsi lo sdegno?
Se con i 5mila euro di cachet, come ha affermato lui stesso, gli bastano a stento per pagare le spese di viaggio (un insulto a quelle persone che vivono con molto meno e a cui, probabilmente, ha deciso di donare il compenso) perché sobbarcarsi un viaggio così lontano e costoso in queste lande sperdute?
Sicuramente Morgan non sta attraversando un periodo felice e, per quello che può servire gli siamo vicini, ma utilizzare come capro espiatorio un evento conviviale, come lo è Irpinia Mood, per sfogarsi su problemi di altra origine e natura, noi lo troviamo un modo un pò banale, per cercare di trovare un senso ai propri problemi personali.
Forse, mai come in questo caso, sarebbe opportuno applicare alla vita i puntini di sospensione.