Torna in scena Tavola tavola, chiodo chiodo…, uno spettacolo di e con Lino Musella, autentico talento della scena, tra i più apprezzati della sua generazione, vincitore – tra gli altri – nel 2019 del Premio Ubu come migliore attore.
Scrive Musella:
Tavola tavola, chiodo chiodo sono le parole incise su una lapide del palcoscenico del San Ferdinando, lapide che Eduardo erige a Peppino Mercurio, il suo macchinista per una vita, che tavola dopo tavola, appunto, era stato il costruttore di quello stesso palcoscenico, distrutto dai bombardamenti nel ‘43.
Faccio parte di una generazione nata tra le macerie del grande Teatro e che può forse solo scegliere se soccombere tra le difficoltà o tentare di mettere in piedi, pezzo dopo pezzo, una possibilità per il futuro, come ermeticamente indicano quelle parole incise nel Teatro di Eduardo che in realtà suggeriscono un’azione energica e continua.
A dare il là a questo nuovo progetto, fortemente voluto dall’attore napoletano e prodotto da Elledieffe e dal Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, sono state le tante riflessioni emerse, durante la pandemia, sul mondo dello spettacolo e sulle sue sorti.

“Tavola tavola, chiodo chiodo…”
tratto da appunti, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo
di e con Lino Musella produzione ELLEDIEFFE e TEATRO DI NAPOLI – TEATRO NAZIONALE
Continua Musella nelle sue note:
In questo tempo mi è capitato di rifugiarmi nelle parole dei grandi: poeti, scrittori, drammaturghi, filosofi, per cercare conforto, ispirazione o addirittura per trovare, in quelle stesse parole scritte in passato, risposte a un presente che oggi possiamo definire senza dubbio più presente che mai; è nato così in me il desiderio di riscoprire l’Eduardo capocomico e mano mano ne è venuto fuori un ritratto d’artista non solo legato al talento e alla bellezza delle sue opere, ma piuttosto alle sue battaglie donchisciottesche condotte instancabilmente tra poche vittorie e molti fallimenti.
Questo grande artista è costantemente impegnato a ‘fare muro’ per smuovere la politica e le Istituzioni e ne esce spesso perdente, in parte proprio come noi in questo tempo, ma anche da lontano non smette mai di alzare la sua flebile, roboante voce e mi piace pensare che lo faccia proprio per noi”.
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The Nothing dei Korn: una storia infinita
C’è quel vecchio detto che dice: “a volte ritornano”. Molto spesso però oggi lo si usa in maniera canzonatoria, quasi ilare, ed è come se si voglia preannunciare un ritorno a qualcosa di particolarmente anomalo che ci ha oltraggiati in passato.
Ebbene, sì, esistono dei ritorni, ma è chiaro che non tutto ciò che riappare può davvero influenzare le nostre ambizioni di oggi; non tutti i mali vengono per nuocere, e di male ora stiamo per parlare.
È tempo di anniversari per i Korn, band metal: venticinque anni dal primo disco omonimo e rivoluzionario e venti anni da Issues, capolavoro impressionante di brutalità, inventiva, freschezza e bravura messi insieme. Eppure qualcosa è accaduto, appena dopo l’uscita di Take a look in the mirror (2003): Brian “Head” Welsh, chitarrista geniale, innovatore e visionario, abbandonò il gruppo, forse per curarsi, forse per problemi di dipendenza, e si ipotizzò anche una rivalutazione del suo ego spirituale che addirittura lo avrebbe portato a diventare un pastore. Il batterista David Silveria pensò di prendersi una pausa, che però si dimostrò fin troppo lunga e quando si decise a ritornare fu respinto. Attualmente è in atto una disputa legale per i diritti d’autore tra lui e gli altri membri della band.
E’ ovvio che le cose quindici anni fa iniziarono a cambiare: la carriera dei Korn, a un decennio dall’esordio sembrava destinata a finire, soprattutto quando la musica mutò decisamente tono, l’elettronica s’intromise nel futuro blando di una comunicazione scarna e senza personalità, e il cantante Jonathan Davis divenne leader e immagine a tutti gli effetti, auspicando ad una carriera solista e parallela, oscurando i suoi compagni di viaggio.
Korn
Ma dicevamo che a volte ritornano…
E il nuovo album dei Korn, The Nothing, tredicesimo lavoro in studio della band “nu metal” americana per eccellenza, assume tutto l’aspetto di un ritorno alle antiche glorie, a un attacco agli errori commessi, ad una riuscita di un benvenuto deciso alle sonorità che li hanno resi grandi. La novità giunge sia dal ritorno di “Head”, di cui la band già festeggiò il suo nuovo ingresso con l’uscita di The serenity of suffering (2016), che aveva inaugurato una parentesi già gloriosamente vissuta –per fortuna-, e che sarebbe stato una felice anticipazione di ciò che abbiamo scoperto lo scorso 13 settembre, release date di The Nothing.
Altra particolarità arriva da una piacevole ispirazione tutta letteraria, suggerita dal cantante Jonathan Davis. L’album si ispira a La Storia Infinita di Michael Ende, libro che proprio nel 2019 compie quarant’anni, e che racconta la stupenda storia di Bastiano, il ragazzino che entra in un libro che sta leggendo e ne diventa il protagonista principale, il quale poi aiuterà il regno di Fantàsia a non cadere in rovina, in seguito al deperimento dell’ Infanta Imperatrice, la sovrana, che è afflitta da un male forse incurabile.
Bastiano, in realtà, si rifugia nel mondo della letteratura, perché è afflitto dalla tristezza sopraggiunta in seguito alla morte della madre, e la voglia di rendersi utile ad una nuova storia che lo distragga e lo faccia diventare vincitore della vita, gli offre la cura per andare avanti e dimostrare di essere più forte di quel male oscuro che sta per distruggere il regno di Fantàsia, Il Nulla. The Nothing, per l’appunto, è l’attuale specchio in cui si è ritrovato Jonathan Davis, il nostro Bastiano musicale, che ha perso l’ex moglie deceduta dopo una forte dipendenza e a cui l’autore era rimasto sempre amico, e che si è catapultato nel lavoro, nella quale disciplina ha immaginato la sua “storia infinita”, in cui probabilmente sogna di salvare la sua regina, che lo ha gettato nello sconforto più nero.
La ricchezza del contenuto di questo album straordinario è racchiusa tutta qui: una malinconia intrisa in tutte le tracce; il dark che si fa spazio a spallate e irrompe nella disperata ricerca di una cura che possa forse salvarci, perché siamo così persi che ormai nessuno può più trovarci:
I’m lost. You’ll never find me.
(Mi sono perso. Non mi troverai mai.)
La prima traccia, The end begins con la cornamusa suonata sempre da Jonathan Davis, ci ricorda piacevolmente l’intro del capolavoro Issues del 1999, e Cold, sembra sia un urlo di rabbia continuo, preso di forza da Take a look in the mirror del 2003, in cui un ritornello, anticipato da una ritmica da 2headbanging” pazzesca, è di una freschezza cristallina, che apre varchi di luce nello scompiglio mentale di Bastiano. You’ll never find me, uno dei singoli, è un ritorno –sì, ancora!- alle oscure sonorità di Life is peachy del 1996, e le chitarre che si rispondono a vicenda con riff nervosi e elettrici, poi si adagiano nel classico ritornello a cui la band californiana ci ha abituati e con i quali ci sentiamo a casa.
La voce di Jonathan Davis migliora come un vino di qualità: il suo graffiato può raggiungere parentesi brutali e orrorifiche, ma mai volgari, mentre un attimo dopo è capace di sussurrare le sue paure, e la volta successiva s’ingegna nelle tracce rap, che mai s’introducono con forza, ma arricchiscono la modernità del metal, quel genere a volte troppo sottovalutato, ma che è cresciuto di credibilità grazie anche alla sua band. Jonathan Davis ha sempre utilizzato la sua voce come uno strumento, a cui è capace di donare profondità, dolcezza, lamento, ma anche una forza sovrumana che urla fuori tutta la rabbia convulsa che ha dentro.
The darkness is revealing è una vera rivelazione di quella voglia di ricominciare da lì dove si era persa quella di proseguire per la propria strada e intraprendere percorsi che non appartenevano. La ritmica del nuovo batterista Ray Luzier emula abbastanza quella di David Silveria, ma regge benissimo il confronto, e , malgrado la quantizzazione elettronica utilizzata dal produttore Nick Raskulinecz, autore anche di ben sette canzoni, traspare dal suo strumento la sua personalità. Il basso di Reggie “Fieldy” Arvizu, probabilmente il motore portante di tutta la struttura, frusta a pieno la sua potenza, e non mancano le piacevoli parentesi in cui il nostro resta nelle tracce come unico performer, mentre anticipa con gloria i riff che giungeranno appena dopo.
Finalmente le chitarre di James “Munky” Shaffer hanno ritrovato la spalla più ovvia, “Head”; quel muro di suono inventato dai due che ha cambiato la storia del metal americano, e probabilmente mondiale, che ha influenzato band trash come Sepultura, con l’album Roots del 1996, e che ha avuto come fedeli seguaci i Limp Bizkit, il cui cantante Fred Durst diresse alcuni videoclip dei Korn.
Idiosyncrasy, quinto brano, sembra essersi catapultato dall’album Follow the leader del 1998, soprattutto grazie alla ritmica incalzante, quasi dance, che ritrovammo nel brano cult Got the life. Non cala tensione The Nothing, con Finally Free, in cui Jonathan Davis/Bastiano canta:
Where are you now?
(Adesso dove sei?)
I try to get through to you, nothing is saving you
( Ho provato a contattarti, non c’è niente che ti sta salvando)
How could I fail?
(Come ho potuto fallire?)
This life betrayed you, and you are finally free
(Questa vita ti ha tradito, e tu sei finalmente libero)
Il messaggio che comunica alla sua musa, l’Infanta Imperatrice, è chiaro: come potrei mai fallire nell’impresa, se il mio scopo è renderti libera, quando la vita ha voluto ingiustamente tradirti?
L’altro singolo Radiofriendly che in questi giorni si ascolta in tutte le radio, Can you hear me, è una sorta di ballad hard, parentesi agrodolce che alterna momenti di tepore e appena dopo con tappeti di chitarre, i cori e i synth appena espressi, in cui i Korn non si tradiscono ancora, e mai lo faranno nel corso del lavoro.
Can you hear me, ‘cause I’m lost
(Riesci a sentirmi?)
And I may never come back again
(E potrei potrei non ritornare mai più)
And why my heart keeps holding on
(E mentre il mio cuore continua ad aspettare)
I know I’ll never be the same again
(so che non sarò mai lo stesso di nuovo)
Bastiano sa che l’avventura sta cambiando la sua vita. La rivelazione di un’esistenza dedita alla conquista della fiducia del regno di Fantàsia non farà più voltarlo indietro negli errori commessi, e lo renderà un uomo migliore: non sarà più di nuovo lo stesso.
In The Ringmaster qualcuno gli dona conforto:
Dear, you have nothing to fear
(Caro, non hai nulla da temere)
Child, I’m the one who makes it also, oh, so, so much better
(Bambino, io sono quello che rende tutto, oh, molto più bello)
Migliore diverrà Bastiano, ed il suono che ci accompagna in questa fantastica avventura che sta per terminare, e più forte ancora il suo ego, infatti nell’undicesima traccia H@rd3r, egli si chiede però perché tutto questo stia succedendo, nonostante stia combattendo strenuamente, la sua vita stia prendendo una direzione davvero dura da concepire: un paradosso che appartiene a tutti, in fondo. Ma è nella traccia precedente, The gravity of discomfort, e nella successiva This Loss, che la band di Bakersfield torna con orgoglio davvero agli antichi fasti, dove cavalcano a pieno i loro anni Novanta, quando posero le pietre miliari che avrebbero fatto riferimento alle generazioni successive. Ma attenzione, perché The Nothing non è un’elevazione ai rimpianti, e non è certo uno scavare nelle proprie ferite.
La bellezza dark struggente di questo lavoro risiede non solo nella tematica drammatica che i Korn hanno sempre affrontato nel loro passato glorioso, perché sarebbe fin troppo evidente. La verità è che sono ritornati sui loro passi per una necessità emotiva, ed è proprio quando Jonathan Davis ha vissuto i dolori della perdita, che ha dimenticato quell’impareggiabile necessità di cambiare stile per confrontarsi con le nuove audience, e ha ricomposto con i ragazzi della band canzoni molto più sincere, più che romanzate, e l’idea di un concept ispirato ad un bestseller ha elevato questo album ad un valore ineccepibile.
Ci lasciamo coi versi dell’indimenticabile Emiliy Dickinson, simili alla tematica affrontata:
Un dono senza pretese, parole impacciate
sono i modi in cui al cuore umano
è rivelato il Nulla.
“Nulla” è la forza che il mondo rinnova.
Carmine Maffei
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RiVolti al mare spiegato da Francesco Massarelli e Luisa Galdo
RiVolti al mare è un progetto di video arte che ha come tematica la riflessione sull’immigrazione e l’integrazione. Il lungometraggio è il risultato del lavoro di Francesco Massarelli che ne ha curato la direzione artistica e di Luisa Galdo che ha curato tutti i passaggi video che ne hanno portato al prodotto finito.
RiVolti al mare è una raccolta di riflessioni fatta da alcuni artisti, noti e meno, prevalentemente tutti di Caserta. Nel video infatti compaiono: Anna Redi che legge un passo de La conferenza degli uccelli adattato da Jean Claude Carriere, tratto dal poema Farid Uddin Attar Mantic Uttair, Simona Boo che recita un passo di Gente do sud di Terroni uniti.
Peppe Servillo in RiVolti al mare recita A comprare la città di Stoccolma di Gianni Rodari che dice:
Al mercato di Gavirate capitano certi ometti che vendono di tutto, e più bravi di loro a vendere non si sa dove dove andarli a trovare.
Uno venerdì capitò un ometto che vendeva strane cose: il Monte Bianco, l’Oceano Indiano, i mari della Luna, e aveva una magnifica parlantina, e dopo un’ora gli era rimasta solo la città di Stoccolma.
La comprò un barbiere, in cambio di un taglio di capelli con frizione. Il barbiere inchiodò tra due specchi il certificato che diceva: “Proprietario della città di Stoccolma”, e lo mostrava orgoglioso ai clienti, rispondendo a tutte le loro domande.
“È una città della Svezia, anzi è la capitale”.
“Ha quasi un milione di abitanti, e naturalmente sono tutti miei”.
“C’è anche il mare, si capisce, ma non so chi sia il proprietario”.
Il barbiere, un poco alla volta, mise da parte i soldi, e l’anno scorso andò in Svezia a visitare la sua proprietà.
La città di Stoccolma gli parve meravigliosa, e gli svedesi gentilissimi. Loro non capivano una parola di quello che diceva lui, e lui non capiva mezza parola di quello che gli rispondevano.
“Sono il padrone della città, lo sapete o no? Ve l’hanno fatto, il comunicato?”.
Gli svedesi sorridevano e dicevano di sì, perché non capivano ma erano gentili,
e il barbiere si fregava le mani tutto contento.
“Una città simile per un taglio di capelli e una frizione! L’ho proprio pagata a buon mercato”.
E invece si sbagliava e l’aveva pagata troppo. Perché ogni bambino che viene in questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e non deve pagarlo neanche un soldo.
Deve soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le mani e prenderselo.
Foto tratta dal lungometraggio di Francesco Massarelli e Luisa Galdo
RiVolti al mare raccoglie diverse testimonianze e riflessioni tra ciò che è realmente accaduto come la lettura di A Tor Pignattara ci stava un pakistano, tratto dal libro La Frontiera di Alessandro Leogrande recitata da Enrico Ianniello o a ciò che paradossalmente potrebbe accadere come avviene nel monologo Gerardo di Aurora Leone.
Questi sono solo alcuni dei protagonisti del lungometraggio di Francesco Massarelli e Luisa Galdo, per scoprire gli altri non vi resta guardare RiVolti al mare.
Toni Servillo
Per scoprire qualche curiosità sulla realizzazione del lungometraggio non vi resta che guardare il video in home, in cui Francesco Massarelli e Luisa Galdo spiegano alcuni dettagli sul loro lavoro.
Buona visione!
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Dante per tutti: nuovo appuntamento al Castello D’Aquino
Continuano gli appuntamenti con Dante per tutti al Castello D’Aquino caffè letterario di Grottaminarda.
Il prossimo incontro è previsto per domenica 18 luglio alle ore 18:00, in cui è prevista la lettura con commento del Canto XIII dell’Inferno insieme a Luca Maria Spagnuolo. Il reading con successivo commento approfondirà l’incontro nella selva dei suicidi con Pier delle Vigne, il cancelliere di Federico II.
Struttura dell’Inferno dantesco
Dante per tutti propone il Canto XIII
Il Canto XIII ci conduce nel VII cerchio all’interno del II girone in cui sono relegati i suicidi. Ci troviamo all’interno di una selva allucinante, popolata da cagne feroci che corrono tra alberi contorti, su cui nidificano le mostruose Arpie. Questi alberi non sono altro che le anime dei suicidi che sono costrette a vivere immobili e senza possibilità di movimento.
La prima impressione che ha Dante è un sentimento di sgomento. La cornice di questo Canto, descritta dal Sommo Poeta, prende spunto da credenze medievali che raccontano di fantasmi, eventi diabolici e fenomeni terrificanti. Questo sfondo incornicia il protagonista, per eccellenza, di questo Canto: Pier delle Vigne, un personaggio di rilievo nella vita culturale e politica durante l’impero di Federico II.
Lui aveva servito sempre con onore e fedeltà il suo Imperatore oltre ad essere uno di quegli scrittori e poeti che, oggi, annoveriamo tra gli intellettuali della scuola siciliana.
Pier delle Vigne attraverso il suo processo, la sua condanna e il suo suicidio mostra da diverse prospettive la fragilità umana.
Dante si avvicina a questo personaggio per diverse ragioni. La prima è quella relativa al gesto di decidere di togliersi la vita. Gesto che per il Sommo Poeta deve essere indagato.
La seconda riguarda le affinità intellettuali dei due: entrambi si sono formati nella stessa scuola, con gli stessi tesi e gli stessi autori. Entrambi sono stati degli intellettuali politicamente attivi e colpiti da una condanna.
L’unica diversità è rappresentata dal diverso ambiente sociale vissuto da ciascuno. Pier delle Vigne ha vissuto all’interno di una corte imperiale in cui mentre si ha stima della posizione culturale e dell’attività letteraria, dall’altra si pretende fedeltà assoluta e senza remore.
Dunque il suo ruolo principale è stato quello di essere un mero esecutore del volere dell’Imperatore e in cui non è consentito un potere attivo di incidenza sui fatti. Dante invece è il figlio della civiltà comunale in cui tutti i partecipanti hanno un posto e un ruolo autonomo a livello politico e sociale e dove non ci sono sommi capi carismatici.
Pier delle Vigne abbinato ad Cocktail Casino
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i ne perde’ li sonni e’ li polsi.
…
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
Pier delle Vigne: breve approfondimento
Pier delle Vigne è un funzionario fedele, accorto e saggio che trova il segno positivo della sua nobiltà attraverso il suo lavoro per Federico II svolto con rigore e devozione per il suo sovrano, che a sua volta lo gratifica.
Proprio per la sua totale dedizione non accetta quando il suo Imperatore dubita della sua fedeltà. Questa insinuazione è così grave, per Pier delle Vigne, che moralmente non riesce a trovare la forza per reagire e decide di suicidarsi. Vivendo infatti il rapporto con abnegazione totale con il sovrano, come se fosse un Dio terreno, la sua vita gli sembra inutile soprattutto per l’onta morale subìta è da ciò si evince la mancanza di libertà individuale del protagonista di questo Canto che vive per ciò che fa e non per ciò che egli è a prescindere dal suo ruolo lavorativo. Il suicidio dunque diventa per Pier delle Vigne una logica conseguenza a fronte di un modo scorretto di vivere la realtà.
Attraverso questo gesto estremo ha creduto di sfuggire al disprezzo, commettendo questo gesto contro natura. Infatti Pier delle Vigne nutre ancora dopo la morte quel desiderio di riscatto terreno, infatti invita i suoi interlocutori (Dante e Virgilio, qualora dovessero ritornare nel mondo dei vivi a rivendicare il suo buon nome, riconfermando la sua fedeltà al suo sovrano.
Per scoprire maggiori approfondimenti e nuove suggestioni letterarie del Canto XIII dell’Inferno non resta altro che prenotarvi al seguente numero: 334 947 46 73.
Per ritornare all’appuntamento di Dante per tutti previsto al Castello D’Aquino caffè letterario di Grottaminarda, in occasione di questa lettura vi consigliamo di sorseggiare un Casino che, insieme a Michelangelo Bruno, abbiamo associato al personaggio di Pier delle Vigne.
Un drink che sembra non possedere un’anima perché prende spunto da diverse composizioni di cocktail ma invece al gusto mostra la propria struttura organolettica e grande personalità.
Buona immersione culturale!