Il Tombolo è un antico mestiere diffuso a Santa Paolina nel XIV secolo, quest’arte del ricamo veniva praticata e insegnata nei monasteri dove le educande imparavano e contemporaneamente preparavano il proprio corredo.
Oggi, purtroppo, questa lavorazione rischia di scomparire perché come accade anche per altri antichi mestieri, non c’è nessuno o quasi che vuole impararli.
Rita Santangelo è una giovane ragazza di Santa Paolina che invece ha deciso di non far finire nel dimenticatoio la lavorazione del Tombolo, che le è stata tramandata in famiglia, decidendo di coinvolgere altri giovani come lei per imparare quest’arte.

Tombolo di Santa Paolina
Il Tombolo è un merletto che si esegue avvalendosi di fuselli o tommarielli e con l’aiuto di spilli si segue un disegno fissato su un cuscino di paglia. Il filo viene avvolto intorno ai fuselli e s’inizia la lavorazione!
Esistono vari tipi di ricami con il Tombolo: si parte dalla Trina che è quello base e si arriva alle lavorazioni più complesse come la Spina di pesce o la Foglia d’uva per cui occorre munirsi di ben 238 fuselli!
La foglia d’uva non rappresenta altro che le tradizioni irpine e di Santa Paolina, zona vitivinicola, molto nota per la produzione del Greco di Tufo e dell’Aglianico.

Il merletto di Santa Paolina
Santa Paolina è un piccolo comune irpino dove il Tombolo viene eseguito da mani abili, quelle sopravvissute. Un tempo questa tradizione veniva tramandata da madre in figlia, dal 1989 la Pro Loco di Santa Paolina provvede ad organizzare, nel periodo estivo, delle giornate dedicate per l’apprendimento della lavorazione del Tombolo.
I luoghi dove ancora sopravvive questo tipo di lavorazione in Campania sono pochi: oltre Santa Paolina ricordiamo anche Tufo, Battipaglia, Positano e Montefusco.
Le tradizioni e i mestieri antichi raccontano una parte del nostro territorio perché racchiudono piccoli pezzi di passato e di ciò che siamo stati, lasciarli morire equivale a far morire un pezzo di noi.
Fortunatamente Rita Santangelo non è l’unica che cerca di ridare dignità alle proprie radici, facendo rivivere ciò che sta scomparendo, sono molti i giovani irpini che stanno riscattando se stessi ed il proprio territorio.
Se resto è perché: il documentario su chi ha scelto l’Irpinia, ad esempio, ne è una dimostrazione tangibile!
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Perché dovremmo (tutti) ringraziare Chick Corea
Armando Anthony Corea è morto alla soglia degli ottant’anni. Li avrebbe compiuti il prossimo 12 giugno. A Chick Corea dovremmo tutti un sentito enorme grazie. Perché, diciamocela tutta, se in molte case è entrato il jazz è stato grazie a lui. E se in molte altre case è entrata la contaminazione musicale, l’elettronica, è sempre grazie a lui. Non è un ossimoro, questo. Ma un percorso a sensi inversi che chiunque ha potuto compiere grazie al virtuoso pianista e tastierista statunitense.
Personalmente scoprii Corea quando ero un fresco ginnasiale di quattordici anni. Nel negozio di dischi che frequentavamo suonava una roba che non avevamo mai sentito prima. Nel senso che era qualcosa che scuoteva, pulita ma potente, vibrante piena di virtuosismi ma anche di emozioni. Avrei scoperto solo dopo, quando decisi di acquistare il disco che quel brano era “Got a match?”, uno dei più incredibili esempi di tecnica e contaminazione di jazz ed elettronica.
Chick Corea: Got a match?
Got a match? di Chick Corea faceva parte del primo album realizzato con Elektric Band, con John Patitucci al basso, Dave Weckl alla batteria, Carlos Rios e Scott Henderson alle chitarre. Una band eccezionale, che faceva esplodere funamboliche progressioni all’unisono, lasciando spazio a parti di più ampio respiro e mettendo di volta in volta in primo piano la bravura dei singoli.
All’epoca ascoltavo esclusivamente rock. Erano gli anni in cui in cui stavo capendo quale fosse la musica che mi piaceva davvero. Erano gli anni della scoperta dei classici, dei Led Zeppelin, dei Jetro Tull, dei Kim Crimson. Il resto, con la spocchia tipica dell’adolescenza, era roba da buttare. Per quell’album di Chick Corea fu diverso. Perché era sì jazz, ma anche un pò a modo suo rock, e perché rievocava atmosfere che potevano accostarsi a certo prog-rock che mi era familiare. L’ascolto di quell’album, che era stato pubblicato un paio di anni prima, mi spinse a scoprire “Light Years” e “Eye of the beholder”, che nel frattempo già spopolavano tra gli appassionati.
Solo più tardi scoprii che quel musicista che suonava la tastiera a tracolla, come un rockettaro, era un prodigioso pianista jazz, che aveva nel suo curriculum collaborazioni strepitose, su tutte quella con Miles Davis.
Che piaccia o no, io Miles Davis non lo avevo mai ascoltato. E grazie a Chick Corea lo scoprii, con la conseguenza che il jazz entrò nella mia collezione di dischi, con l’ascolto a cascata dei primi classici, Coltrane su tutti, poi dei contemporanei, tra i quali mi innamorai di Michel Petrucciani. Inevitabile, poi, l’esplorazione della fusion, che mi condusse alla folgorazione per Pat Metheny, che poi significò addentrarmi in un mondo nuovo, parallelo rispetto a tutto ciò su cui avevo fondato i miei ascolti fino ad allora.
Chick Corea
Questa prospettiva personale mi fa pensare, senza dubitarne minimamente, che molti abbiano fatto il percorso inverso, e che, partendo dalla conoscenza del jazz e del pianista Chick Corea, abbiano grazie a lui esplorato territori sconosciuti e forse ritenuti sacrileghi. I puristi del virtuosismo jazz sono stati costretti a prendersi sportellate dell’Elektric Band e a non arricciare più il naso di fronte a qualcosa di completamente differente rispetto agli standard imposti dal purismo. Ed una volta scoperto quel mondo, scommetto che nessuno abbia fatto marcia indietro, ma che ognuno abbia invece esplorato, ascoltato, si sia mosso con passi più sicuri verso mondi musicali diversi e che solo apparentemente potevano sembrare distanti anni luce da quelli conosciuti e praticati come intoccabili capisaldi.
Chick Corea era un pianista jazz. Chick Corea era un tastierista. I due elementi compongono la fusion che ha contribuito in modo prepotente a creare. Esattamente come un altro grande tastierista e pianista, Lyle Mays, definito “il lato oscuro di Pat Metheny”, che come in uno scherzo del destino era morto un anno e un giorno prima di Chick Corea, il 10 febbraio 2020. Ecco perché non possiamo non ringraziare Armando Anthony Corea. La sua musica è stata un viaggio vero attraverso i pianeti della diversità. E ci ha fatto scoprire tutti più democratici negli ascolti, più malleabili nei gusti e soprattutto ha fatto comprendere che, spesso, chi vuole ingabbiare la musica in contenitori a comparti stagni probabilmente (e semplicemente) la musica non la ama davvero.
Enrico Riccio
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Sanremo 2021: le pagelle irriverenti della terza serata
La terza serata del Festival di Sanremo 2021, ovvero quella delle cover e dei duetti. Ventisei canzoni. Che il dono della sintesi ci assista. Giudizi in ordine più o meno sparso, senza seguire le classifiche.
1. AIELLO – VEGAS JONES: “GIANNA (RINO GAETANO)
C’è lo sforzo di riarrangiare un brano che è nel DNA degli italiani e il risultato non è da buttare.
2. ERMAL META – NAPOLI MANDOLIN ORCHESTRA: “CARUSO” (LUCIO DALLA)
Sa cantare, non tocca, con grande rispetto, l’impostazione del brano, e si rende protagonista di un karaoke di qualità.
3. MALIKA AYANE: “INSIEME A TE NON CI STO PIU’” (CATERINA CASELLI)
Meglio sola che male accompagnata. (Per il resto, vedi sopra al numero 2).
4. MAX GAZZE’– DANIELE SILVESTRI – MAGICAL MISTERY BAND: “DEL MONDO” (C.S.I.)
Con Lazzarotti al basso, Rondanini alla batteria e Silvestri al suo fianco, regala una perla con una interpretazione perfetta. Non era per niente facile ma Gazzè ha centrato il bersaglio.
5. WILLIE PEYOTE – SAMUELE BERSANI: “Giudizi universali” (SAMUELE BERSANI)
Con Bersani che canta Bersani è tutto facile. Non può non funzionare.
6. GAIA – LOUS AND THE YAKUZA: “MI SONO INNAMORATO DI TE” (LUIGI TENCO)
A parte gli intrecci vocali italo-francesi che sono cacofonici come poche cose al mondo, passare dal reggaeton a Tenco è da denuncia. Ma non canta male.
7. FULMINACCI – VALERIO LUNDINI – ROY PACI: “PENSO POSITIVO” (JOVANOTTI)
La cosa migliore la fa il comico Lundini ironizzando sul concetto del mondo come un’unica grande chiesa. Per il resto, Roy Paci fa Roy Paci e Fulminacci, boh.
8. LA RAPPRESENTANTE DI LISTA – RETTORE: “SPLENDIDO SPLENDENTE” (DONATELLA RETTORE)
Altro capitolo dedicato al Karaoke. Rettore sul palco garantisce tenuta e credibilità. Il pezzo è suo, d’altronde.
9. EXTRALISCIO/TOFFOLO – PETER PICHLER: “MEDLEY ROSAMUNDA”
Toffolo gratta un tubo e una masnada di musicisti da balera affolla il palco. I camerieri possono servire l’antipasto. La sposa è arrivata.
10. GIO EVAN – I CANTANTI DI THE VOICE SENIOR: “GLI ANNI” (883)
Ma perché, perché?
La terza serata del Festival di Sanremo è stata dedicata alle cover
11. ORIETTA BERTI – LE DEVA: “IO CHE AMO SOLO TE” (SERGIO ENDRIGO)
La più credibile della serata. Naviga in acque sicure, con un brano della sua generazione, meraviglioso, più volte oggetto di vilipendio in passato.
12. RANDOM – THE KOLORS: “RAGAZZO FORTUNATO” (JOVANOTTI)
Il batterista sembra suonare un pezzo dei Korn. Ma sta suonando Jovanotti e non si sa se piangere o ridere.
13. BUGO – PINGUINI TATTICI NUCLEARI: “UN’AVVENTURA” (LUCIO BATTISTI)
Provano a fare il verso ai Coldplay, ma non ce la fanno. Provano a cantare, ma non ce la fanno. Non ce la fanno, insomma.
14. COLAPESECE – DI MARTINO: “POVERA PATRIA” (FRANCO BATTIATO)
Pezzo da maneggiare con cura. Due siciliani che omaggiano il maestro siciliano. Tutto bene. Quando alla fine entra la voce registrata di Battiato il resto sparisce.
15. ANNALISA – FEDERICO POGGIPOLLINI: “LA MUSICA E’ FINITA” (UMBERTO BINDI)
Interpretazione senza sbavature, credibile, intensa. Non si capisce il ruolo di Poggipollini, che suona tre note. Ma con Ligabue si è abituato così.
16. LO STATO SOCIALE – FANELLI – PANNOFINO – I LAVRATORI DELLO SPETTACOLO: “NON E’ PER SEMPRE” (AFTERHOURS)
Un brano sdoganato dalla sua aura rock e restituito alla sua dimensione naturale: il pop. Gli ospiti della band leggono l’elenco dei teatri chiusi per la pandemia. Non può essere per sempre.
17. MADAME: “PRISENCOLINESINAINCIUSOL” (ADRIANO CELENTANO)
Al netto della recitina iniziale, svetta per qualità dell’interpretazione di un brano che sembra fatto su misura per lei. E poi ci fa capire a che servono i banchi con le rotelle. Grazie.
18. ARISA – MICHELE BRAVI: “QUANDO” (PINO DANIELE)
Ho sfogliato il codice penale. Niente, non c’è il reato di vilipendio di capolavoro. Gli è andata bene.
19. GHEMON – NERI PER CASO: “LE RAGAZZE” (NERI PER CASO) – “DONNE” (ZUCCHERO) – “ACQUA E SAPONE” (STADIO)
Gradevoli, ma quando ci sono di mezzo I neri per caso è subito Mai dire gol.
20. IRAMA: “CYRANO” (FRANCESCO GUCCINI)
Sceglie un brano che è ormai consegnato alla storia della musica. Lo canta da solo e non sfigura.
Le pagelle sulla terza serata del Festival di Enrico Riccio
21. COMA COSE – ALBERTO RADIUS – MAMAKASS: “IL MIO CANTO LIBERO” (LUCIO BATTISTI)
La cosa migliore è Radius, che porta Battisti sul palco perché con Battisti ci ha suonato. Per il resto, ai falò in spiaggia abbiamo sentito interpretazioni migliori.
22. MICHIELIN – FEDEZ: “MEDLEY” (AA.VV.)
La scelta delle canzoni è talmente irrilevante che non vale nemmeno la pena di elencarle. Decidono deliberatamente di massacrarle tutte e forse questa è la cosa più originale di tutta la serata.
23. FASMA – NESLI: “LA FINE” (NESLI)
Che dire. Il giovane Nesli va a cantare una sua canzone che piace ai giovani, con un giovane che piace ai giovani.
24. NOEMI – NEFFA: “PRIMA DI ANDARE VIA” (NEFFA)
Un altro ospite che interpreta se stesso. Altra minestra riscaldata con una artista che sa il fatto suo e che dunque non sbaglia.
25. FRANCESCO RENGA – CASADILEGO: “UNA RAGIONE DI PIU’” (ORNELLA VANONI)
Scritta da Califano e Reitano, questa canzone, dalla Vanoni, era stata resa immortale. Eppure Renga e la sua ospite sono riusciti ad ammazzarla. Senza pietà.
26. MANESKIN – MANUEL AGNELLI: “AMANDOTI” (CCCP FEDELI ALLA LINEA)
Partono bene, poi comincia la sfida tra pavoni, a chi fa la ruota più bella, a chi grida di più e meglio. Violentano una canzone di una delicatezza unica, facendo rimpiangere persino la brutta cover già fatta da Gianna Nannini. Scherzate con i fanti, ma lasciate stare i santi.
Ecco le pagelle della terza serata del Festival di Sanremo 2021.
Se avete perso quelle della prima e della seconda serata, dovete recuperarle!
Buona scoperta!
Enrico Riccio
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La coerenza di Ulisse
Chi è l’uomo spinto dal suo demone interiore? Quel demone rappresenta quell’inclinazione che costringe l’essere umano a proseguire la sua strada, restando fedele a se stesso nonostante il dolore che arreca a sé e agli altri. Nell’immaginario collettivo questa capacità è rappresentata dall’autogovernarsi e dunque la condizione esistenziale ad essere responsabile delle proprie decisioni è raffigurata dal mito di Ulisse.
Durante il suo pellegrinaggio, durato dieci anni, Ulisse incontra creature bellissime che, però, deve sempre abbandonare per seguire il suo destino. È come un richiamo inconscio ma troncare gli affetti rappresenta un modo di voltare le spalle al mondo che ciascuno si costruisce e ciò, se vogliamo, è terribile perché non c’è altra giustificazione se quella di restare fedeli a se stessi. Dunque questa modalità di agire equivale ad un tradimento. Ciò a cui Ulisse si sottrae, voltando le spalle alle persone che incontra durante il suo viaggio, rappresenta il pensiero collettivo perché tradisce il pensiero comune e le aspettative della gente. In situazioni come questa può subentrare il rimorso, si può essere assaliti dai sensi di colpa ma la recriminazione peggiore per Ulisse sarebbe quella di non fare la cosa giusta.
Nel momento stesso in cui nasciamo, veniamo eterodiretti prima dai progetti dei nostri genitori e, successivamente, dall’ambiente in cui viviamo. Solo quando operiamo delle scelte personali diventiamo autodiretti e le cose intorno a noi iniziano a cambiare perché noi iniziamo a cambiare.
La nostra capacità di riuscire a trasformarci consiste, soprattutto, nell’ascoltare la voce dell’inconscio che custodisce l’irriducibile desiderio della realizzazione individuale. Per questo motivo, ogni essere umano è unico, ogni conflitto interiore è personale. Di fronte al conflitto, la persona implicata si ritira dal mondo, chiudendosi dal mondo e dagli altri.
La guarigione psicologica avviene attraverso una presa di coscienza della situazione che è utile, a far uscire la psiche dal suo torpore, per arricchire la vita di un senso di cambiamento e di avventura. Per questo motivo tutti noi siamo come Ulisse perché cerchiamo una nuova visione interiore che sia più ampia. Una visione capace d’interpretare e di fornire di nuovi significati il mondo relazionale in cui siamo immersi. Questo avviene quando superiamo gli attaccamenti dell’io e ciò si verifica quando cerchiamo di ampliare ciò che crediamo di essere, andando oltre il personaggio statico nel quale ci siamo identificati.
il mito di Ulisse
Quando ci sentiamo infelici è probabile che non stiamo agendo in conformità alle nostre attitudini e facciamo finta di non sapere quali siano. Coltivare le nostre inclinazioni ha un effetto prodigioso sulla psiche e ci fa sentire realizzati ma dobbiamo prima individuarle. Il rischio è quello di negare queste parti nascoste per uniformarci ad una realtà che ci porterà a vivere una vita mediocre perché delineata da ideali che non sono i nostri.
Fare emergere le nostre aspirazioni, significa far emergere i frutti della pianta che siamo ma, per rifiorire e fruttificare, bisogna che il guscio si apra. C’è bisogno di una porta aperta.
I poteri della psiche
Chi è capace di aprire le porte della psiche? È l’eros perché quando lui apre le porte riusciamo a percepire il mondo e le nostre attitudini si possono manifestare. Per aprirsi all’altro l’io deve destituirsi, ha bisogno di laterarizzarsi per potersi rapportare a quegli aspetti oscuri della nostra personalità.
L’io comincia davvero a sapere quando si lascia accompagnare dalle immagini dell’inconscio, nelle quali si esprime la parte tenebrosa e scura della personalità. L’immaginazione quindi diventa un luogo intermedio di incontro e reciprocità, un luogo per superare le resistenze.
Quando superiamo le resistenze, la psiche si apre ed emerge un segreto custodito nel profondo. Il viaggio, quello di Ulisse non può esistere senza coinvolgimento affettivo. Non ci può essere viaggio e quindi creazione di ciò che siamo.
Questo, il talento dell’eros, che grazie al coinvolgimento affettivo sfida la paura, erotizza la paura e la attraversa. L’eros feconda il caos dentro di noi.
Come dice Carl Gustav Jung:
Accettai il caos e l’anima mia mi visitò.
È il processo individuale che implica una visione dell’uomo come essere tendente ad uno scopo che è quello di trovare la sua unicità. In questo tendere, tollerando l’accettazione della nostra ombra per diminuire la coazione difensiva a causa della paura della vita.
L’eros ci mette nello stato d’animo di accettare e rischiare tutto.
Jung affermava:
La trasformazione si ottiene con la follia dell’amore, che è una dimensione dinamica capace di portare l’inconscio alla luce.
E allora è piuttosto l’incapacità di amare che ci impoverisce, rendendoci sterili. Chi non ama vede il mondo come insignificante, ecco perché Freud arriva ad affermare che la libido conferisce alla realtà vitalità e bellezza. D’altra parte sempre Freud ci ricorda che l’umanità ha sempre sacrificato un pò della felicità in cambio di un pò di sicurezza.
Capovolgere gli assunti per vedere l’invisibile a caccia del desiderio inconscio.
L’intento è quello di aprire una finestra sulle dinamiche inconsce e ricordare che dall’atteggiamento creativo nasce il coraggio di vivere, che implica la consapevolezza della propria particolarità e di quell’incolmabile particolarità e di quell’incolmabile distanza che ci separa dall’altro ma che nello stesso tempo ci rende unici.
Il fine ultimo non è la meta il viaggio.
Si cambia quando ci si accosta al simbolico perché l’inconscio è poetico e si mostra metaforicamente. Solo allora possiamo revisionare e rileggere il nostro essere nel mondo. L’atteggiamento affettivo di tipo artistico esiste e conta veramente tanto. Se l’inizio del pensiero è il disaccordo, non solo con gli altri ma anche con noi stessi, bisogna dubitare di se stessi e del proprio pensare.
Dovremmo domandarci quale istanza in noi governa il nostro pensiero? Sarebbe il primo passo verso la verità e sciogliere così i falsi nessi tra le cose.
schemi mentali
Gli schemi mentali non portano a qualcosa di costruttivo, la sfida di Ulisse è quella di andare oltre. Ulisse naviga per andare altrove, parlando e raccontandosi in un modo rinnovato supera se stesso.