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Il viaggio di Capitan Fracassa: Ettore Scola narra la realtà velata dal fascino del teatro

Siamo a Trevico, in provincia di Avellino ed è il 1940.

È sera e fa molto freddo in paese, e la famiglia Scola è radunata nel suo palazzo. La guerra è già iniziata da un pezzo, ma sembra così  lontana e lì, in Baronia, pare che l’eco di essa non riesca a rientrare tra le preoccupazioni.

Il piccolo Ettore Scola, di nove anni, siede davanti al fuoco col nonno, non vedente che, quella sera così come le altre ancora a venire, gli chiede di prendere un libro dallo scaffale, e di leggere ad alta voce.

Ettore Scola

Ettore Scola

Ettore Scola non è tanto entusiasta dell’idea: quelle sono storie difficili per lui, spesso noiosissime, e non riesce quasi sempre a comprenderne il significato.

Quella sera però, qualcosa succede. Il volume che ha tra le mani, mentre con enfasi ne legge il contenuto, inizia a trasmettergli qualcosa di nuovo: nella sua mente le immagini si fanno sempre più vive, la storia lo trascina in un vortice di fatti e accadimenti da cui proprio non riesce a staccarsi.

Molti anni dopo, trasferitosi a Roma, e diventato un regista di successo: come dimenticare C’eravamo tanto amati (1974) o Una giornata particolare (1977)?, nonostante le acclamazioni e gli impegni che lo rendono occupatissimo a sviluppare nuove idee (inizia in realtà la carriera come sceneggiatore del film Un americano a Roma di Steno), non è mai riuscito a staccarsi dalla convinzione che quel libro che aveva letto al nonno più di quarant’anni prima avrebbe dovuto prendere vita con la realizzazione di un film.

Il libro in questione era Capitan Fracassa di Théophile Gautier. Si narra che, inizialmente, pensando alla trasportazione sul grande schermo, avesse contattato un giovanissimo Gérard Depardieu, che all’inizio degli anni ’80 era un ragazzo smilzo, e gli avesse riferito del progetto, riservandogli la parte del protagonista, un nobile dimenticato ed affamato, esiliato nella sua proprietà anch’essa in via di abbandono insieme all’umile servo, mentre le famiglia aveva perduto tutte le ricchezze.

Il viaggio di cApitan Fracassa: la recensione

Ettore Scola narra la realtà velata da fascino del teatro

Il film però non fu realizzato che una decina d’anni più tardi, e nel frattempo Gérard Depardieu aveva acquistato molto peso, così l’attore stesso decise di rinunciarvi.

Iniziano così finalmente le riprese di Il viaggio di Capitan Fracassa, con la produzione di Mario e Vittorio Cecchi Gori, di cui Ettore Scola, oltre ad esserne il regista, cura la sceneggiatura con molta naturalezza, coi ricordi della sua infanzia davanti alla libreria della sua casa di Trevico. Il film esce al cinema il 31 ottobre 1990, cinquant’anni dopo quelle letture che dedicò con trasporto al nonno non vedente.

Il viaggio di Capitan Fracassa: trama

Nel ‘600, una combriccola un pò sgangherata di attori, gira col suo carretto trainato da buoi, un mezzo che funge sia da casa che da palco per mettere in scena i loro spettacoli itineranti, mentre partono dalla Spagna e sono diretti in Francia, e precisamente a Parigi, dove sperano di ricevere il meritato successo. È durante questo viaggio che s’imbattono nella vecchia e abbandonata tenuta del barone Sigognac (interpretato da Vincent Perez), che infine prendono con loro, perché il vecchio servo narra la leggenda che il re avrebbe tenuto a cuore un gesto benefico della sua nobile famiglia, ridotta però al lastrico per ignoti motivi. Accompagnare il barone fino al cospetto di Luigi XIII, avrebbe significato per loro ricevere il doveroso rispetto dalla corte, quindi da tutta Parigi, che avrebbe per sempre lodato la bravura della compagnia, a cui sarebbe aspettato un periodo d’oro.

Il servo (Ciccio Ingrassia)  raccomanda il suo sfortunato padrone a Pulcinella (Massimo Troisi), donandogli cento scudi d’oro, e chiedendogli di guidarlo sempre nella giusta direzione, essendo il barone privo di qualsiasi esperienza, perché vissuto soltanto tra le quattro mura di casa sua. Durante una nevicata. succede che uno degli attori, Matamoro (Jean-François Perrier), trovi la morte, e il barone Sigognac, che nel frattempo, con la guida di Pulcinella ha guadagnato un certo coraggio, fidanzandosi dapprima con la bella Serafina (Ornella Muti) e poi con Isabella (Emmanuelle Béart), si fa avanti per sostituirlo, tra gli sguardi increduli degli altri.

Dimenticandosi il nome del suo protagonista, dà vita così al personaggio di Capitan Fracassa. La commedia si tiene al castello del marchese di Bruyères (Marco Messeri), che invita il duca di Villambrosa (Remo Girone). Quest’ultimo s’innamora di Isabella, e tale gesto incita l’ira del barone Sigognac, che lo invita al duello. Isabella, per salvare il barone da una morte certa, fugge via col duca e abbandona la compagnia. Nel frattempo però il barone ha una brutta ferita, che avrà bisogno di cure. Fortuna che il brigante Agostino (Claudio Amendola), trovandosi lì per caso, conosca un dottore bravissimo…

Il viaggio di Capitan Fracassa: storia, curiosità e tematiche.

Il film fu, per tutta la sua durata, girato al Teatro 5 di Cinecittà, il più grande, almeno all’epoca, d’Europa, e le scene furono volutamente curate con scenografie dipinte.

Nella pellicola, infatti, si denotano fortemente questi paesaggi finti, che si addirittura mal si prestano all’ambientazione selvaggia (la compagnia sgangherata ma bravissima viaggia sempre tra i boschi), e agli interni, anch’essi piuttosto “disegnati” dei castelli di Sigognac e di Bruyères.

Il film si apre con un siparietto, mentre l’inquadratura s’intromette pian piano in esso, e penetra tra le scene e le prime battute degli attori. Lo spettatore quindi è catapultato, fin da subito, in una pièce teatrale, con attori che interpretano a loro volta attori itineranti (scavalcamontagne come li definì Ettore Scola), e la voluta scenografia di cartone, ha il valore simbolico del lavoro che c’è dietro una rappresentazione; il film, in quanto esso tale resta, ha il compito, o meglio, gioca col suo pubblico la scommessa di fondere la realtà col teatro e viceversa.

Il viaggio di Capitan Fracassa: locandina

Il viaggio di Capitan Fracassa il film di Ettore Scola

Se all’inizio tale congettura disorienta, facendo immaginare un lavoro mediocre ed economicamente scarso, alla fine abitua l’occhio alla storia, che a sua volta racconta una storia di un teatro. Un teatro che narra, a sua volta ancora, la nascita di un personaggio inventato durante il lungo viaggio fino a Parigi, Capitan Fracassa, frutto della fantasia del barone Sigognac, che nel frattempo ha sbaragliato la sua primordiale timidezza ed ha scoperto una vocazione che lo porterà ancora più lontano degli agognati splendori che gli avrebbe promesso il sovrano di Francia. Sarà lui a guidare da regista, infine, la compagnia fino alla Ville Lumière, e presentare ad un pubblico, povero ma entusiasta, una storia che sa di mistero, finzione e realtà: la sua stessa storia, in poche parole, arricchito con la fantasia.

È proprio il pubblico, questa massa di contadini, gente che vive di quasi nulla se non con le proprie risorse, la forza che ha voluto far intendere Ettore Scola. Il regista, infatti, punta molto le inquadrature sui volti esterrefatti della gente che assiste al teatrino e che paga con ciò che può, anche con beni in natura, e che attraverso le storie che vengono presentate, s’immedesima in esse, sogna, mette in moto la sua stessa fantasia e si finge ora un conte, ora un barone, ora un condottiero valoroso, e con tali scene ottiene il suo riscatto nei confronti dei più potenti, di chi li schiaccia.

Un’ambientazione à la Hugo, con tutta la sua povertà e il suo millesimale valore sociale, che dona ad un pubblico analfabeta, che vive di ciò che si può, una scuola di vita e che gli fa conoscere le ambientazioni che ritraggono un mondo che neanche conoscono, e che forse hanno soltanto sentito tramandato nelle storie accanto al focolare di famiglia, lo stesso in cui si trovò, seppur in una misura più fortunata, il piccolo Ettore Scola, nel salone della sua casa natìa di Trevico, mentre leggeva al suo nonno quei romanzi, quelle storie che forse poco comprendeva, ma che avrebbe incamerato per dar inizio ad una carriera senza precedenti, che ha arricchito la storia del cinema italiano con capolavori indimenticabili.

Questa storia, signori, nasce dall’amore per la lettura.

 

Carmine Maffei

C’era una volta a Hollywood: la timida confessione di un regista geniale

Non ci sarà mai pace per chi ha apprezzato C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, e nonostante sia passato già quasi un anno da quando i giornali ne iniziarono a parlare, tale pellicola continua ad acquistare prestigio, vuoi innanzitutto per i riconoscimenti, meritatissimi tra cui gli Oscar 2020, vuoi per l’importanza storica dei personaggi che nel film ne hanno riscritto la storia dei personaggi stessi.

Ed è esattamente questa la chiave di ricerca delle nostre ambizioni tarantinesche, qualora ci dovessimo imbattere in una nuova avventura nella costanza che il geniale regista americano ha incarnato soprattutto in Django Unchained, Bastardi senza gloria e l’ultimo appena espresso.

Sì, perché come Quentin Tarantino stesso ha affermato, sono proprio questi tre film che vogliono ritagliare un ruolo importantissimo nella sua carriera di sceneggiatore, oltre che di regista, naturalmente. Riscrivere la storia in questa trilogia ha fatto parte di uno dei tanti progetti del geniale artista, e l’impressione che avviene ogni qual volta ci si imbatte nel momento in cui ci tuffiamo in tale avventura, ci incolla alla nostra umile postazione di spettatori della riscrittura degli avvenimenti a noi noti, intesi nella ristrutturazione di una società migliore.

È come se oggi, appena usciti fuori dalla sala cinematografica, dopo esserci sorbiti tutti e tre i sopraccitati film, ci sentissimo completamente rinati e speranzosi di una nuova conquista morale e persuasiva del mondo che ci appartiene: senza schiavismi, senza le conseguenze dei totalitarismi del ‘900, senza l’epilogo americano triste degli anni ’70, decennio di sogni e utopie registrate nel subconscio dei più autentici sognatori libertini.

C'era una volta a Hollywood: cast completo

L’ultimo film di QuentinTarantino

C’era una volta a Hollywood ha il fascino negli attori stessi che lo interpretano, innanzitutto perché l’attrazione di quei tempi, che chiudono un decennio del sogno hippie americano, s’incarna nel marcato sex appeal delle interpretazioni, che incidono dannatamente nelle iridi degli spettatori incalliti: testimoni di una storia nella storia ed autentici testimoni della reinterpretazione di essa stessa.

Ritornerò e con un film western.

Avrebbe dichiarato lo stesso Quentin Tarantino qualche anno fa, quando tutti eravamo ancora sulle spine, e non aveva tutti i torti: C’era una volta a Hollywood, oltre ad essere una testimonianza viva e tangibile del 1969 hollywoodiano, è un film nel film, o meglio una fantastica ed autentica ricollocazione del mito dei western in un epoca che ricorda cinquant’anni or sono. Ecco dove anche risiede la grandezza di Quentin Tarantino.

Come Effetto Notte di François Truffaut, ci si tuffa nella personalità, nei segreti e nelle debolezze degli attori, proprio mentre si sta per ritrovarsi sul set, o poco prima che tutto ricominci, soprattutto nella combattuta condizione del protagonista Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), che dopo il successo di serie TV e B movies, si ritrova a lavorare per le grandi industrie cinematografiche hollywoodiane, ma dove capisce che non riuscirà a decollare, vuoi per i limiti di età e interpretativi, vuoi per la mancanza di tatto di un grande attore che non sa come farsi accettare, vuoi ancora per l’eccesso del bere ed i vizi che alimentano l’indebolimento del fisico di un attore già fuori fase.

La sua sarà una continua voglia di ascendere all’Olimpo dei beneamati del mainstream cinematografico, e tale coniatura avrà luogo proprio quando si accorgerà di essere vicino di casa della coppia del momento: Roman Polanski e Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie), che lo affiancano con la loro fuoriserie cabriolet mentre corrono tra le colline di Cielo Drive fino alle rispettive abitazioni, ville mozzafiato dell’upper class.

C'era una volta a Holywood: recensione

L’ultimo film di Tarantino

La vera forza di Rick Dalton è interpretata nella sua controfigura, Cliff Booth (Brad Pitt), che lo affianca da qualche anno nei suoi film , e che gira le scene più pericolose, oltre ad essere una sorta di tuttofare del viziato attore: lo accompagna sul set anche se non vi deve per forza lavorare, oppure torna a casa di Rick Dalton per rimettere qualcosa in sesto qua e là.

I due sono diventati inseparabili, tanto è vero che quando Rick Dalton, per emergere di nuovo è “costretto” a volare fino in Italia (gli esempi sono i film di Sergio Corbucci e Sergio Leone) per far fruttare la sua carriera, Cliff Booth è sempre lì con lui.

Tralasciando un attimo il contesto storiografico, che è importante, cosa ha attratto nell’immaginario di chi lo ha captato come un messaggio tra le righe del regista stesso?

No, non è un’invenzione, ma un collegamento tra eventi scatenatisi poco prima dell’uscita del film. Quentin Tarantino ha dichiarato di voler arrivare a dieci film al massimo, e che quest’ultimo, il nono della sua carriera, sarebbe stato un apripista all’epilogo scoppiettante, che vorrà dichiarare come la terza parte di Kill Bill I e II. Ma cosa in realtà lega la storia nella storia, narrata e riscritta, con la vita del regista, che nel frattempo si è sposato ed è diventato padre, e che ha scelto di chiudere a breve con i film e dedicarsi al teatro o al massimo ai romanzi?

La sceneggiatura forse di per sé è già un romanzo, anche se quest’ultimo sarà sicuramente più difficile da scrivere, ma ciò non toglie che sia una sceneggiatura che un romanzo assumono il carattere di chi li scrive, e quindi sono lo specchio dei piaceri e delle paure dei suoi autori, racchiuse nei personaggi chiave.

La Hollywood del 1969 è il ricordo più o meno nitido di un Quentin Tarantino bambino, che accompagnato dai suoi genitori, inizia a sorbire le influenze fascinose del cinema; Rick Dalton è l’incarnazione stessa del regista, che si crede al tramonto della sua carriera, e si trascina con più fatica all’apice di un successo sì garantito, ma sempre più affannato, perché forse superato. Insomma, una cruda reinterpretazione delle sue paure di mezza età che a volte spingono a rivalutare le potenzialità e le accuratezze che non combaciano con l’immediatezza dei tempi correnti. Ecco però che appare Cliff Booth, belloccio, atletico e tuttofare, controfigura di Rick Dalton, pronto a farsi in quattro in prima persona quando l’attore protagonista non può mettere a repentaglio la propria pelle.

Cliff Booth è l’alter ego ribelle di Quentin Tarantino, potenzialità ancora accesa dietro il volto pacato del professionista; Cliff Booth è il lato più scaltro, strafottente, avventuriero e pratico del regista americano, il lato nascosto che non si dà per vinto e  che continua a lavorare per meritarsi il contegno di una carriera sfavillante che non conosce limiti di età o di epoche che preferiscono il digitale alla pellicola in trentacinque millimetri.

La stessa Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie, nel film, durante un noioso pomeriggio assolato, si reca al cinema per rivedere un film in cui è protagonista, e allo stesso tempo saggia le reazioni del pubblico in sala che assiste alle scene più cool, e si diverte alle reazioni e alle ovazioni.

Ebbene, Sharon Tate è lo stesso Quentin Tarantino che da giovane si recò al cinema in anonimato per assistere alle reazioni del suo Reservoir Dogs (Le Iene) e capire le vere interpretazioni del pubblico pagante.

La scena finale del film, che non vuole neanche ora essere svelata nei confronti di chi non ha avuto ancora la fortuna di vederlo, è una rivendicazione di Rick Dalton, felice dopo il ritorno dall’Italia (patria dei film che hanno formato il carattere cosiddetto pulp del regista americano), che attua una vendetta non solo nei confronti della Storia che si sa, non è mai troppo giusta, ma soprattutto rivalutando la propria persona e combattendo fianco a fianco con Cliff Booth, che ora è davvero tutt’altro che una controfigura ma un testimone della rinascita dell’attore (e nell’inconscio, del regista) e manifesta il suo coraggio annientando il pericolo e riportando all’ordine le Storia.

C’era una volta a Hollywood è la mascherata, timida ma esplosiva confessione di un regista geniale, che neanche nell’ultima sedicente fase della sua carriera da cineasta ha voluto tradirci, e che si prepara al finale dello smantellamento totale di sé come protagonista assoluto. Ma intanto noto che si è fatto tardi ed è già ora di cena:

Qualcuno qui ha ordinato crauti flambé?

 

Carmine Maffei

Figli di Giuseppe Bonito: uno spaccato ironico sulla genitorialità di oggi

Giuseppe Bonito, dopo L’Arminuta (2017) tratto dall’omonimo romanzo, torna sul grande schermo con Figli, uscito nelle sale il 23 gennaio.

Il lungometraggio affronta in modo leggero ed ironico l’essere genitori al giorno d’oggi, offrendo anche uno spaccato sociale e politico, che sottolinea la problematica de calo delle nascite, dovute alla precarietà lavorativa e alla mancanza di prospettive reali per il futuro di una coppia che decide di mettere al mondo una vita.

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea

Figli: la trama

Nicola (Valerio Mastandrea) e Sara (Paola Cortellesi) hanno già una bambina, la loro vita procede tranquillamente tra i vari impegni lavorativi di entrambi finché non arriva la notizia di una seconda e inaspettata gravidanza.

La gestione familiare in teoria è divisa al 50 e 50 tra i due coniugi ma, come sempre, il carico mentale dell’organizzazione grava interamente sulle spalle di Sara. Con la nascita di Pietro le problematiche si acuiscono perché i genitori bis non riescono a farcela da soli, per la gestione del tempo e dei compiti da svolgere nella quotidianità lavorativa e familiare.

Cercando di trovare una soluzione, tra cartelle esattoriali e affitti da pagare, chiedono aiuto alle rispettive famiglie che appartengono a quell’epoca sessantottina che si è mangiata tutto quello che poteva, che godono di una pensione e che rappresentano la categoria degli ultimi privilegiati di quel sistema politico ed economico che, oggi, non garantisce neanche la metà di ciò che, in passato, è stato dato a loro.

L’unica soluzione che trovano idealmente Nicola e Sara, nei momenti più critici, è quella di scaraventarsi fuori dalla finestra della loro abitazione e di fuggire, cercando una quiete apparente.

Figli: il trailer

Vario Mastandrea e Paola Cortellesi sono i protagonisti di Figli

Figli: lo spaccato sociale di oggi

Giuseppe Bonito, oltre a mettere in evidenza la criticità economica, politica e sociale del nostro tempo, si sofferma sull’individualismo e sul forte egoismo, che anima la maggior parte delle nostre scelte. Un esempio lampante è dato dalla scena in cui Nicola chiede aiuto a Cabo (Giorgio Barchiesi), suo padre, per aiutarlo a tenere il piccolo Pietro quando lui e Sara sono a lavoro.

Cabo, alla richiesta di aiuto familiare, risponde al figlio di non essere in grado di poterlo fare per mancanza di energie ma, subito dopo questa risposta, Nicola viene a sapere che Cabo sta cercando di diventare padre con la sua nuova compagna, molto più giovane di lui.

Figli è un film che lascia un sorriso amaro perché esasperando alcune situazioni, ci porta a riflettere sulla criticità sociale di oggi perché ciascun aspetto della nostra vita, anche quello più privato, è strettamente connesso a tutto ciò che ci gravita intorno anche se, apparentemente,la società ci sembra lontana dalla nostra quotidianità.

Paola Cortellesi, dopo Ma cosa ci dice il cervello, torna a farci sorridere con l’ironia che la contraddistingue infatti ne consigliamo vivamente la visione.

Francesco Amato ci racconta la vera storia di Elisa Girotto

18 regali è l’ultimo film di Francesco Amato, che porta sul grande schermo la triste storia di Francesca Girotto, una giovane madre trevigiana che, durante la gravidanza, scopre di avere un tumore al seno in stadio avanzato, che le strapperà la vita, impedendole di veder crescere sua figlia.

Francesca decide di colmare la sua assenza, preparando, prima della sua morte, 18 regali per sua figlia affinché l’accompagnino durante la sua crescita. La scelta di Francesca nasce dal desiderio d’amore che vorrebbe dare una madre ad una figlia, dal desiderio di essere presente nei momenti cruciali della sua vita e dalla voglia di farsi conoscere come donna e come persona familiare, nonostante tutto e nonostante l’impossibilità della presenza fisica e quotidiana.

18 regali

Vittoria Puccini e Benedetta Porcaroli

18 regali: la trama

Elisa (Vittoria Puccini) ha quarant’anni, lavora in un’agenzia interinale ed ha un compagno: Alessio (Edoardo Leo), un trainer calcistico da cui aspetta un figlio. La loro vita familiare procede tranquillamente fino a quando la donna scopre di avere un tumore avanzato, che le impedirà di vivere e di godersi sua figlia. Elisa, infatti, muore lo stesso giorno in cui mette alla luce Anna (Benedetta Porcaroli), la bambina che porta in grembo.

Anna cresce e, ad ogni suo compleanno, scarta il regalo della mamma ma non si spiega il motivo per cui non è la mamma stessa a darglieli e perché non l’ha mai vista. Alessio è costretto a spiegare l’assenza della madre, accompagnandola al cimitero.

Andando avanti negli anni, Anna trova fastidioso aprire i regali della madre e nel giorno del suo 18esimo compleanno decide di non aprire l’ultimo regalo di Elisa e di non partecipare alla festa che Alessio e i suoi nonni hanno organizzato per lei, fuggendo di casa.

La ragazza decide di scappare di casa ma, durante la fuga, viene investita ed entra in coma.

Locandina 18 regali

Locandina dell’ultimo film di Francesco Amato

Attraverso l’espediente del coma Francesco Amato trova un filo conduttore straziante che mette in contatto Elisa e Anna. La ragazza, infatti, conosce la madre e rivive con lei quel tempo in cui Elisa scopre di avere un tumore e decide di prepararle i 18 regali.

18 regali è un film che, oltre a farci riflettere sull’importanza della vita, pone lo spettatore davanti l’importanza della comprensione all’interno di un nucleo familiare perché Anna, durante il viaggio temporale che le permette d’ incontrare la madre, conosce anche il padre e ne scopre lati che fino a quel momento non aveva compreso.

Il lungometraggio di Francesco Amato parla di quei legami visibili e invisibili, che si riassumono con il termine di legami familiari, e ci porta a riflettere sull’importanza che ha il donare senza remore e senza confini temporali.

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