Perché dovremmo (tutti) ringraziare Chick Corea

Armando Anthony Corea è morto alla soglia degli ottant’anni. Li avrebbe compiuti il prossimo 12 giugno. A Chick Corea dovremmo tutti un sentito enorme grazie. Perché, diciamocela tutta, se in molte case è entrato il jazz è stato grazie a lui. E se in molte altre case è entrata la contaminazione musicale, l’elettronica, è sempre grazie a lui. Non è un ossimoro, questo. Ma un percorso a sensi inversi che chiunque ha potuto compiere grazie al virtuoso pianista e tastierista statunitense.

Personalmente scoprii Corea quando ero un fresco ginnasiale di quattordici anni. Nel negozio di dischi che frequentavamo suonava una roba che non avevamo mai sentito prima. Nel senso che era qualcosa che scuoteva, pulita ma potente, vibrante piena di virtuosismi ma anche di emozioni. Avrei scoperto solo dopo, quando decisi di acquistare il disco che quel brano era “Got a match?”, uno dei più incredibili esempi di tecnica e contaminazione di jazz ed elettronica.

Chick Corea: Got a match?

Got a match? di Chick Corea faceva parte del primo album realizzato con Elektric Band, con John Patitucci al basso, Dave Weckl alla batteria, Carlos Rios e Scott Henderson alle chitarre. Una band eccezionale, che faceva esplodere funamboliche progressioni all’unisono, lasciando spazio a parti di più ampio respiro e mettendo di volta in volta in primo piano la bravura dei singoli.

All’epoca ascoltavo esclusivamente rock. Erano gli anni in cui in cui stavo capendo quale fosse la musica che mi piaceva davvero. Erano gli anni della scoperta dei classici, dei Led Zeppelin, dei Jetro Tull, dei Kim Crimson. Il resto, con la spocchia tipica dell’adolescenza, era roba da buttare. Per quell’album di Chick Corea fu diverso. Perché era sì jazz, ma anche un pò a modo suo rock, e perché rievocava atmosfere che potevano accostarsi a certo prog-rock che mi era familiare. L’ascolto di quell’album, che era stato pubblicato un paio di anni prima, mi spinse a scoprire “Light Years” e “Eye of the beholder”, che nel frattempo già spopolavano tra gli appassionati.

Solo più tardi scoprii che quel musicista che suonava la tastiera a tracolla, come un rockettaro, era un prodigioso pianista jazz, che aveva nel suo curriculum collaborazioni strepitose, su tutte quella con Miles Davis.

Che piaccia o no, io Miles Davis non lo avevo mai ascoltato. E grazie a Chick Corea lo scoprii, con la conseguenza che il jazz entrò nella mia collezione di dischi, con l’ascolto a cascata dei primi classici, Coltrane su tutti, poi dei contemporanei, tra i quali mi innamorai di Michel Petrucciani. Inevitabile, poi, l’esplorazione della fusion, che mi condusse alla folgorazione per Pat Metheny, che poi significò addentrarmi in un mondo nuovo, parallelo rispetto a tutto ciò su cui avevo fondato i miei ascolti fino ad allora.

Chick Corea

Chick Corea

Questa prospettiva personale mi fa pensare, senza dubitarne minimamente, che molti abbiano fatto il percorso inverso, e che, partendo dalla conoscenza del jazz e del pianista Chick Corea, abbiano grazie a lui esplorato territori sconosciuti e forse ritenuti sacrileghi. I puristi del virtuosismo jazz sono stati costretti a prendersi sportellate dell’Elektric Band e a non arricciare più il naso di fronte a qualcosa di completamente differente rispetto agli standard imposti dal purismo. Ed una volta scoperto quel mondo, scommetto che nessuno abbia fatto marcia indietro, ma che ognuno abbia invece esplorato, ascoltato, si sia mosso con passi più sicuri verso mondi musicali diversi e che solo apparentemente potevano sembrare distanti anni luce da quelli conosciuti e praticati come intoccabili capisaldi.

Chick Corea era un pianista jazz. Chick Corea era un tastierista. I due elementi compongono la fusion che ha contribuito in modo prepotente a creare. Esattamente come un altro grande tastierista e pianista, Lyle Mays, definito “il lato oscuro di Pat Metheny”, che come in uno scherzo del destino era morto un anno e un giorno prima di Chick Corea, il 10 febbraio 2020. Ecco perché non possiamo non ringraziare Armando Anthony Corea. La sua musica è stata un viaggio vero attraverso i pianeti della diversità. E ci ha fatto scoprire tutti più democratici negli ascolti, più malleabili nei gusti e soprattutto ha fatto comprendere che, spesso, chi vuole ingabbiare la musica in contenitori a comparti stagni probabilmente (e semplicemente) la musica non la ama davvero.

Enrico Riccio

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